Il Volume è composto da 60 schede; la numero 38 ha come titolo:
Big Pharma e il rischio dell’imperialismo sanitario
L’invenzione delle malattie. Se è difficile fornire una definizione di “malattia”, le difficoltà aumentano con quella di “non-malattia”, a partire dal fatto che il suo nome consiste in una litote. Il concetto diventa più chiaro quando si scorre la lista di alcune non-malattie individuate dal British Medical Journal: la solitudine, l’infelicità, la vecchiaia, la gravidanza. È normale che ogni società definisca il proprio malessere (e cerchi le modalità con cui curarlo o sublimarlo), ma etichettare come “malattie” quelle che sono condizioni di vita decisamente “normali” comporta esiti prevedibili: determinati malesseri corrono il rischio di essere “strumentalizzati”. Alla pari di ogni altra industria che opera nel mercato globale, la sanità necessita sempre di nuovi sbocchi e di allargare l’universo dei potenziali clienti e per fare questo si dota anche di un imponente marketing. Parlando di ricerca medica, è presumibile pensare che il bilancio delle aziende farmaceutiche sia dedicato in buona parte allo sviluppo e ai laboratori. Risulta apparentemente anomalo, quindi, che la voce più consistente, a livello di budget, fosse destinata nell’anno 2000 al non ben specificato “marketing e amministrazione”, peraltro ben differenziato, al proprio interno, poiché il 35% dei dipendenti delle case farmaceutiche era impegnato nel reparto marketing e il 12% in quello amministrativo, secondo i dati di PhRMA. Perché le aziende farmaceutiche hanno bisogno di un così imponente ufficio marketing? La risposta è semplice: per vendere i farmaci. L’elenco degli 8 farmaci più venduti negli Stati Uniti tra il 1998 e il 1999, messi a confronto con le rispettive quote pubblicitarie, mettono in evidenza come, ad esempio, per un antiulcera si siano spesi in promozione 79,4 milioni di dollari con un ritorno di vendite di circa 3.649 milioni di euro.
Le malattie dimenticate. Il mancato accesso ai farmaci, anche a quelli essenziali, è spesso dovuto a una motivazione così semplice che non si riesce a estirpare: la povertà. Quest’ultima, come è intuibile, è legata a filo doppio con la malattia: i poveri si ammalano di più, sia perché impossibilitati a curarsi, sia perché solitamente vivono in condizioni socio-ambientali che facilitano la proliferazione di morbi e virus. Per quanto sia inaccettabile continuare a ritenere inevitabile l’associazione povertà e malattia, quasi che il povero sia tale “naturalmente”, se non addirittura per una sua qualche colpa (come se fosse inevitabile un quantum di povertà in ogni società), ci troviamo di fronte, in questo senso, a un problema strutturale, profondamente innervato nelle regole dell’economia di mercato. Diverso, invece, è il caso del mancato accesso alle cure o alle prestazioni sanitarie perché queste sono inesistenti. Le malattie “neglette” hanno la sfortuna di essere state ormai debellate nelle aree più ricche del mondo globale e di concentrarsi quasi esclusivamente nelle aree sottosviluppate, in quei paesi dotati di scarsa influenza politica ed economica, nelle zone prive di copertura mediatica: sono malattie “dimenticate” perché non fanno notizia nell’Occidente e non godono